Annalisa Cuzzocrea
E NON SCAPPARE MAI
Miriam Mafai, i segreti e le lotte nella tempesta della storia
pp. 272, € 19,
Rizzoli, Milano 2025
Ha rovistato anche la scatola blu dove Miriam Mafai (1926-2012) custodiva appunti, missive, oggetti che le ricordassero episodi della sua lunga esperienza. Ha consultato parenti e comuni amici. Si è avvalsa dell’affettuosa conoscenza diretta e così Annalisa Cuzzocrea ha composto un libro che non pretende di essere una compiuta biografia intellettuale dell’ammiratissima Miriam, giornalista battagliera, scrittrice anticonformista, donna di suprema indipendenza critica, comunista appassionata non succube di inflessibili schemi. Il brillante racconto che ne è uscito punta a tratteggiare il carattere e lo stile della protagonista più che le sinuose discettazioni politiche. Fin dall’inizio emerge la tempra di Miriam, che nel caldo 7 agosto 1947, senza aver proferito verbo in famiglia, sposò in sinagoga un giovane bellissimo, Ugo Nacson, arrivato a Roma dall’Egitto al seguito dell’esercito inglese. Taciturno e malinconico, pareva nascondere qualcosa di insondabile, ma lei voleva conquistare, appena ventunenne, l’indipendenza desiderata. Due anni dopo era vedova e avrebbe portato in sé per sempre l’ombra del suicidio di quell’uomo sbarcato da lontano. Non si dette per vinta e strinse una nuova pubblica unione con un funzionario del Pci, Umberto Scalia, che le dava sicurezza e una dignità inattaccabile. Ne nacquero Luciano e Sara e ne fu orgogliosa. Ma l’uomo della sua vita fu, dal 1962, Gian Carlo Pajetta, con il quale condivise fino all’ultimo, tra un viaggio e l’altro, un saldo e franco legame: “Ci siamo voluti molto bene Gian Carlo ed io ma non abbiamo mai sacrificato pezzi della nostra esistenza” affermò senza perifrasi. Da principio ognuno abitava per suo conto, Pajetta quasi in una scarna cella. Entrambi erano dediti a lotte convergenti, ma condotte con una reciproca autonomia. Lei fu anche deputato con Alleanza dei Progressisti, lui militò nel Pci con una ferrea fedeltà. Nel drammatico 1956 Miriam tacque, malgrado fosse dell’opinione che Togliatti e l’intero gruppo dirigente sbagliavano. Da Parigi inviava sofferte riflessioni: “Tra il carro armato sovietico e il compagno ungherese com’è possibile che noi, che abbiano sventolato la bandiere della pace, siamo ora dalla parte di chi calpesta gli innocenti?”. Abbandonò ogni incarico in silenzio. “Il femminismo di Miriam – sottolinea l’autrice – era tutt’altro che dogmatico”. L’impostazione di Simone de Beauvoir la attraeva assai più della visione della differenza teorizzata da Luce Irigaray, le condizioni materiali delle donne più delle discettazioni sul lessico. Preferì il faticoso modulo dell’inchiesta dalla scrittura concreta e stringata. Il suo rifiuto delle guerre non sfociava in pacifismo assoluto, magari ridotto a schematica ideologia. La fine del Pci non deflagrò secondo lei improvvisa. Ne fu rattristata ma non imboccò la strada di un facile e sbrigativo revisionismo. Nell’ultimo messaggio (3 gennaio 2012) indirizzato alla sorella Simona trascrisse un brano del filosofo spagnolo Manuel Cruz: “Ciò che sembra entrato in profonda crisi è qualcosa che potremmo definire passione per il futuro […] Ma il fallimento di un’alternativa, per quanto grandi fossero le speranze in essa riposte, non equivale certo alla sconfitta di ogni possibilità”. Nel 1996 Miriam aveva dato alle stampe un pamphlet, Dimenticare Berlinguer, che analizzava le fasi di proposte contraddittorie e anacronistiche. La politica del “secondo Berlinguer” aveva oscillato tra il consociativismo di un impraticabile “compromesso storico” e l’enfasi di una diversità comunista che equivaleva a estraniarsi dai mutamenti del sistema politico. Il concetto di riformismo finalmente non avrebbe avuto un senso spregiativo. Occorreva uscire “in modo definitivo” – scrisse Miriam – dalla tradizione comunista. Sulla controversa questione non guastava spendere qualche pagina in più.

