Un testamento capace, forse, di cambiare radicalmente gli equilibri attorno a Exor – la cassaforte da cui dipendono Stellantis, Ferrari e la Juventus – e di muovere una posta da cinquanta miliardi di euro. Oppure, al contrario, solo un foglio di carta senza alcun valore. È il dubbio che aleggia dopo l’ultimo colpo di scena nella lunga e tormentata vicenda della successione di Gianni Agnelli. Protagonista ancora una volta Margherita, che nei giorni scorsi ha depositato un documento inedito con il quale spera di mettere in discussione il 25% della holding oggi in mano a suo figlio John Elkann, anche se la controparte liquida la questione come priva di conseguenze. Ma per molti osservatori la partita va al di là della validità del documento: da quando l’Avvocato non c’è più, la storica dinastia da simbolo del successo imprenditoriale è diventata piuttosto il simbolo di tutti quegli errori che si possono commettere con il passaggio generazionale.Tra battaglie legali, rancori e scandali, l’eredità degli Agnelli si è trasformata in un campo di scontro decennale. Nel frattempo, della vecchia Fiat rimangono in Italia solo frammenti, mentre John Elkann, presidente del gruppo, si trova costretto ad affrontare perfino lavori socialmente utili dopo un patteggiamento per presunta frode fiscale.
Un caso eclatante, certo, ma non isolato. La parabola è simile per molti grandi capitani d’impresa: capaci di costruire colossi industriali, incapaci, però, di garantirne un futuro oltre sé stessi. Il momento più critico è sempre lo stesso, quello del passaggio generazionale. In teoria non dovrebbe coincidere con la fine di un’azienda, perché un’impresa è – o almeno dovrebbe essere – un organismo autonomo, in grado di sopravvivere al suo fondatore. Eppure, la scarsa preparazione, il rifiuto di parlarne o la scelta di eredi inadatti lo trasformano spesso in un dramma. Se gli Agnelli restano il caso simbolo, altrettanto significativo è quello di Leonardo Del Vecchio: a tre anni dalla sua morte, l’eredità di Luxottica è ancora bloccata. Otto eredi – sei figli, la vedova Nicoletta Zampillo e il figliastro Rocco Basilico – detengono ciascuno il 12,5% della Delfin, la holding lussemburghese della famiglia, ma sono divisi sul futuro dell’azienda e sulle modifiche allo statuto. Le fratture riguardano anche la guida del gruppo: alcuni reclamano un ruolo maggiore per la famiglia, altri sostengono la linea dell’attuale manager Francesco Milleri, scelto dallo stesso Del Vecchio. A rendere tutto più complicato, una norma che richiede l’unanimità dell’88% per le decisioni strategiche, fatto che paralizza tanto la governance quanto la distribuzione di dividendi milionari.
Del resto, il problema è uno solo: parlare del “dopo” resta un tabù. Ma non per tutti. Giorgio Armani, ad esempio, pur mantenendo riservati i dettagli del proprio testamento, ha pianificato con estrema chiarezza la successione: tutte le azioni della Giorgio Armani Spa andranno alla Fondazione Giorgio Armani, mentre l’usufrutto resterà al compagno Pantaleo Dell’Orco, alla sorella Rosanna e ai tre nipoti. La Fondazione, entro un anno e mezzo, dovrà comunque cedere il 15% del capitale, mantenendo però sempre almeno il 30,1% in caso di futura quotazione in borsa. Un piano personale, ma limpido, che – si spera – non aprirà varchi a contestazioni.
C’è poi chi ha deciso di andare ancora oltre, elaborando modelli totalmente nuovi. È il caso di Patagonia. Da qualche tempo, sul sito dell’azienda campeggia lo slogan: “ora la Terra è il nostro unico azionista”. Yvon Chouinard, il fondatore oggi 86enne, ha deciso di trasferire l’intera proprietà della sua azienda — valutata circa 3 miliardi di dollari — a due nuove entità: il Patagonia Purpose Trust e l’Holdfast Collective, che sono rispettivamente un trust e un’organizzazione non profit impegnata nella lotta alla crisi climatica. Questo significa che i profitti generati da Patagonia, dopo aver coperto i reinvestimenti necessari per l’azienda, vengono ora interamente destinati a cause ambientaliste e alla salvaguardia del pianeta. Una scelta sicuramente estrema, figlia del Dna del suo fondatore: “Non ho mai voluto essere un uomo d’affari”, scrive di suo pugno Chouinard spiegandola. “Un’opzione non c’era – continua – e così abbiamo creato la nostra: al going public abbiamo preferito il going purpose. Invece di estrarre valore dalla natura e trasformarlo in profitti per gli investitori, useremo la prosperità generata da Patagonia per proteggere la vera fonte di ogni ricchezza”. Una scelta estrema e forse irriproducibile, ma capace di ispirare un nuovo modo di pensare l’impresa.
Se i conflitti delle grandi dinastie si svolgono sotto i riflettori, nelle piccole e medie imprese la sfida è la stessa, anche se meno visibile. I dati Aub-Istat dicono che il 18% delle aziende italiane – circa 144.000 realtà – dovrà affrontare un ricambio di leadership nei prossimi cinque anni. Ma i numeri sono impietosi: solo il 30% sopravvive al primo passaggio e appena il 13% arriva alla terza generazione. È quindi evidente che occorrano strumenti nuovi: come il trasmettere la proprietà ai manager più fidati, scelta che sempre più imprenditori stanno compiendo. D’altra parte, la stessa percentuale di leader familiari nelle imprese è calata dell’8% negli ultimi anni, segno che 64.000 imprese circa si stanno aprendo a forme di gestione esterna. Così si punta su persone che, magari al contrario dei propri discendenti o parenti prossimi, in azienda hanno passato anni, si sono lasciati coinvolgere facendo propri i progetti di crescita e hanno visioni più lucide e obiettive sul futuro. E non si tratta solo di piani postumi: sempre più imprenditori scelgono di coinvolgere i propri manager o addirittura i dipendenti nel capitale già durante la loro vita. Lo racconta, ad esempio, un piccolo imprenditore veneto che ha istituito un trust in cui confluirà la proprietà della sua azienda. I soci vengono selezionati in base a merito e anzianità, mentre il trust è gestito da una figura esterna, con vincoli precisi: parte degli utili dovrà essere reinvestita in progetti sociali o ambientali.
Seppure siano ancora una minoranza, sono esempi illuminati di come la via non sia già scritta: la scelta più auspicabile è quella che ricade su chi vuole far parte del futuro dell’impresa e ne ha contemporaneamente le capacità. Perché in fondo, l’impresa non è soltanto patrimonio di chi l’ha fondata. È un bene collettivo, che coinvolge lavoratori, territori e comunità. Il vero lascito di un imprenditore, allora, non sta soltanto nei successi accumulati in vita, ma nella capacità di immaginare e guidare il futuro anche quando lui non ci sarà più.