In Italia il cibo ha sempre avuto memoria lunga. Oggi deve avere anche un progetto. Il nuovo numero di Monitor, in uscita questa domenica 2 novembre, parte da qui: dall’avvertimento di Francesco Mutti che la qualità non basta più se il gioco competitivo è asimmetrico — Ets, energia, costi di lavorazione in crescita qui, importazioni da Paesi senza le stesse regole là. Nel 2025 l’agroalimentare italiano continua a crescere (export in spinta verso Usa e nuovi mercati, agricoltura unico comparto col Pil in aumento nel terzo trimestre), ma lo fa dentro una cornice più ostile: climate change che colpisce cacao e caffè alla radice, materie prime più care e più volatili, barriere doganali nuove o reintrodotte. Il punto non è più “fare qualità”, ma mettere a terra una governance di filiera che la paghi, la protegga e la renda sostenibile anche economicamente.
Nel numero lo vediamo da tutti i lati. Con Giovanni Trovato (Coind) il caffè viene raccontato come non lo si vedeva da 40-50 anni: scorte azzerate, produzioni tropicali sotto stress, necessità di lavorare “più a monte possibile” con i produttori dal Brasile al Vietnam. Con Mauro Fanin (Cereal Docks) il quadro si allarga: l’Italia viaggia con un 35-40% di autonomia e deve diversificare rotte, salire da commodities a ingredients, investire in ricerca su suolo, nutrizione e benessere animale perché «la filiera va rifornita ogni giorno». È lo stesso principio delle politiche di prezzo di Mutti sul pomodoro: pagare oltre il mercato per costruire fedeltà e performance nel tempo.
Ma la pressione non è solo sulle aziende simbolo: Ivan Vacondio (Molini Industriali Modena, già Federalimentare) mette nero su bianco quello che molti non dicono: la compressione dei margini interessa tutti, dagli agricoltori alla Gdo, e finché logistica e trasporti (soprattutto su ferro) restano un collo di bottiglia, il costo lo assorbe l’intera filiera. In parallelo Riccardo Rota (Orobix) mostra l’altro lato: l’agritech in Italia vale già 2,3 miliardi, l’IA, i droni e i sensori per “misurare e prevenire” ci sono, ma le resistenze culturali e di investimento rallentano l’adozione. Tecnologie pronte, governance lenta.
C’è poi la partita regolatoria: il nuovo regolamento Ue sugli imballaggi imporrà entro il 2030 packaging riciclabili e filiere più circolari. Per l’Italia — che è già prima in Europa con 162,2 kg di rifiuti riciclati per abitante — significa due cose: costi di adeguamento e logistica inversa più complessa; ma anche l’occasione per un comparto da 10 miliardi (macchine per imballaggio) di consolidare la propria leadership europea riprogettando materiali e processi.
In mezzo, le storie che dicono che l’agroalimentare italiano non si sta fermando ma si sta riposizionando: il Chianti che prova il rosé per andare incontro ai mercati nordamericani; l’avocado high-tech in Sicilia; il ritorno del cotone in Puglia; il riso che sperimenta più a nord. Tutte micro-prove della stessa tesi: se la filiera lavora insieme, innova, misura e distribuisce valore lungo la catena, il made in Italy del cibo può restare protagonista anche in un mondo che non gioca alla pari. Se invece ognuno sta sul suo pezzo, decide il mercato. E — come ricorda Ivano Chezzi (Granterre) — quando salta un anello, si indeboliscono tutti.

