Quando si parla di operations, la tentazione è quella di ridurre tutto a efficienza, tempi ciclo e produttività. Ma quando un’azienda deve organizzare e scalare i propri processi produttivi su più plant distribuiti in Paesi o continenti diversi, la gestione delle operations diventa una questione ben più complessa. La distanza geografica implica infatti non solo una sfida logistica, ma anche un confronto con culture diverse, normative divergenti, sensibilità locali, disponibilità eterogenea di competenze e livelli di maturità tecnologica disomogenei. Per un direttore operations orchestrare una sinfonia coerente a partire da stabilimenti dislocati in luoghi differenti significa camminare lungo una linea sottile tra standardizzazione e adattamento.
Sarà proprio questo il tema del nuovo numero del settimanale OperationsManager, che sarà disponibile sul sito operationsmanager.it a partire dal primo pomeriggio di domani, venerdì 25 luglio. L’inserto dedicato al mondo dei processi e dei loro architetti nelle fabbriche, edito da ItalyPost in collaborazione con auxiell e AzzurroDigitale, vedrà intervistate tre realtà (e tre dei loro protagonisti): Imab, Limonte e Renco.
Se gli impianti si trovano nello stesso Paese, la gestione risulta più semplice: le operations possono essere replicate quasi specularmente, sia nel layout produttivo sia nei flussi informativi e decisionali. In un contesto dove lingua, normative, cultura organizzativa, fornitori e manodopera sono omogenei, la governance può essere centralizzata, con direttive che partono dalla sede centrale e vengono implementate nei vari plant con variazioni minime. Il plant manager, in questo scenario, ha un ruolo esecutivo: applica con precisione linee guida ben definite.
La situazione cambia quando gli impianti si trovano in Paesi diversi, anche all’interno della stessa area geografica, come l’Europa. Nonostante l’armonizzazione normativa garantita dall’Unione Europea, restano differenze significative nelle culture aziendali, nella gestione della qualità, nel ruolo del middle management, nella sensibilità alla sicurezza e alla sostenibilità ambientale. Anche con prodotti identici e impianti simili, diventa cruciale curare la dimensione ‘soft’ dei processi: formazione, change management, interfaccia tra headquarters e plant locali. In questo scenario il plant manager non è più solo un esecutore, ma assume un ruolo strategico, diventando un traduttore culturale, un adattatore di processi, un interprete delle direttive corporate alla luce delle specificità locali.
Quando l’attività si estende su più continenti, la complessità cresce in modo esponenziale. Gli stabilimenti in Stati Uniti, Cina, Brasile o India non sono solo distanti: rappresentano veri e propri mondi a sé. Le leggi sul lavoro, le norme ambientali, le aspettative dei clienti e persino la concezione stessa di qualità cambiano profondamente. In certi contesti è fondamentale il rispetto dei tempi, in altri la flessibilità; alcuni mercati puntano tutto su tracciabilità e certificazione, altri sulla rapidità e l’adattamento. Immaginare un unico modello operativo da applicare ovunque è non solo irrealistico, ma potenzialmente dannoso. Qui si gioca la vera sfida delle operations globali: costruire sistemi flessibili, adattabili ma anche replicabili e coerenti.
Una delle soluzioni più utilizzate è il modello della fabbrica ‘core model’: un impianto di riferimento sviluppato nel Paese d’origine dell’azienda, che funge da matrice per l’organizzazione degli altri stabilimenti. Questo modello rappresenta il benchmark in termini di layout, flussi, Kpi, tecnologie, organizzazione del lavoro e sistemi informativi. Tuttavia, replicare non equivale a copiare. La vera sfida è distinguere gli elementi realmente universali da quelli che richiedono adattamento. Alcuni aspetti, come la qualità o la manutenzione predittiva, possono essere standardizzati; altri, come la gestione delle risorse umane o gli approvvigionamenti, richiedono approcci locali molto più flessibili.
A complicare ulteriormente lo scenario c’è la natura stessa degli impianti. Non tutti i plant nascono da zero: molti vengono acquisiti da realtà con culture aziendali e storie molto diverse. In questi casi non si parte da una lavagna bianca. Macchinari, spazi, cultura preesistente e organizzazione del magazzino rappresentano vincoli da gestire. Anche la forza lavoro ha spesso un proprio modo di lavorare consolidato, difficilmente compatibile con i modelli della casa madre. Anche qui serve un approccio ibrido: armonizzare i processi, introdurre logiche del core model, allineare i sistemi informativi, ma anche coinvolgere le persone, ascoltare i bisogni locali, valorizzare le specificità.
Un nodo spesso sottovalutato riguarda il ruolo del direttore operations nella fase di acquisizione di un nuovo impianto. In teoria il suo coinvolgimento dovrebbe essere massimo: chi meglio di lui può valutare la compatibilità di layout, tecnologie e competenze esistenti? In pratica però, molte acquisizioni seguono logiche differenti e il responsabile operations viene coinvolto solo in un secondo momento, quando le decisioni sono già state prese e i margini d’azione sono limitati. In questi casi, il suo compito è adattare l’impianto esistente alle logiche aziendali: a volte riprogettando i flussi, altre volte cercando una convivenza tra modelli differenti.
Ed è proprio questa capacità di muoversi tra standard e variabilità che distingue il bravo direttore operations. Chi guida i processi oggi deve costruire sistemi resilienti, capaci di affrontare crisi globali, tensioni geopolitiche, oscillazioni nei costi dell’energia o delle materie prime. In questa ottica, la molteplicità dei plant non è un ostacolo, ma una risorsa: una forma di diversificazione. Scalare le operations su impianti diversi rappresenta una sfida organizzativa che misura la capacità di bilanciare rigore e flessibilità. È un continuo esercizio di traduzione, negoziazione e adattamento. Ed è proprio in questa complessità che si gioca il futuro delle aziende manifatturiere globali: nella capacità di essere uniformi senza essere rigidi, coerenti senza essere ciechi, efficienti senza essere indifferenti alle diversità.