«Non basta una legge per fare la partecipazione perché si registrano ancora dei limiti sul piano civilistico e fiscale che non favoriscono la diffusione dello strumento». Giuseppe Milan, presidente della Fondazione Capitale & Lavoro e autore insieme a Ilaria Vesentini del libro “Capitale e lavoro. La via italiana alla partecipazione” in uscita il 14 ottobre per Post Editori, non gira intorno alla questione. La legge 76/2025 del maggio scorso rappresenta «una svolta di grande importanza», ma il quadro normativo, così com’è, rischia di trasformare un cambio di paradigma in un’occasione parzialmente mancata.
Soprattutto se si considera che la partecipazione dei lavoratori al capitale aziendale, in Italia, è sempre stata un tema più evocato che praticato, se non sporadicamente, mentre in altri Paesi europei esistono da tempo. Tuttavia, a muoversi per primi in maniera organica e organizzata, su questo fronte, sono stati attori economici e sociali che hanno deciso di unire le forze. Nel maggio 2024, infatti, è nata in Veneto – ma con vocazione nazionale – la Fondazione Capitale & Lavoro dall’iniziativa congiunta di cinque mondi diversi: impresa, lavoro, management, professioni e credito.
Alla base ci sono alcuni valori chiave — partecipazione, inclusione, sostenibilità, innovazione, equità e responsabilità — e la volontà di sperimentare assetti più evoluti per rafforzare soprattutto le Pmi, ossatura del capitalismo familiare italiano. «L’idea nasce da un’analisi condivisa di contesto — spiega Milan — che evidenzia trasformazioni rapide: le dinamiche demografiche negative, l’esodo dei giovani, la trasformazione tecnologica che muta la natura del lavoro la scala dei valori, in particolare delle nuove generazioni, e un progressivo esaurimento della demografia imprenditoriale». Sfide a cui «riteniamo che la partecipazione possa essere una risposta per costruire nuovi modelli organizzativi».
Anche per questo la legge, che ha portato per la prima volta nella legislazione italiana una disciplina organica sulla partecipazione, è un segnale politico e culturale forte «grazie all’iniziativa popolare promossa in particolare dalla Cisl che porta nella legge un principio che la Costituzione del 1948 aveva già indicato, ma che per quasi ottant’anni è rimasto inattuato», ricorda Milan. Sul piano tecnico, la legge riconosce quattro strumenti: trust, azioni gratuite, azioni a titolo oneroso e strumenti finanziari partecipativi.
Il punto è che la legge da sola non basta, ma per diventare una pratica diffusa servono aggiustamenti precisi per far sì che si possa esprimere in tutte le sue potenzialità. «Ci sono infatti limiti tecnici e normativi», sottolinea Milan. Il primo riguarda la forma societaria: oggi le Spa possono applicare i modelli partecipativi, mentre le Srl di dimensioni medio-grandi no, salvo casi specifici. «Così il dipendente di una grande Srl è trattato diversamente rispetto a quello di una Spa». Una disparità che, secondo Milan, apre persino a profili di illegittimità costituzionale.
Il secondo ostacolo è fiscale: la soglia di vantaggio fiscale per le azioni riservate ai dipendenti (esenzione d’imposta fino a 2.065 euro) è ferma ai valori fissati nel 1985 – un dato che, osserva Milan, stride con i 12.000 euro oggi previsti, ad esempio, in Spagna. A questo si aggiunge la regola secondo cui le imprese che adottano questi modelli incontrano ulteriori vincoli nel ricomprare le azioni cedute ai dipendenti, perché «la riacquisizione viene tassata come retribuzione ordinaria, con conseguenze fiscali pesanti».
Per affrontare questi nodi la Fondazione ha aperto un primo cantiere dedicato «a proporre alcuni emendamenti che rimuovano questi ostacoli normativi e fiscali – precisa – perché senza queste correzioni anche la migliore legge rischia di applicarsi solo a pochi, lasciando esclusi proprio i soggetti che più ne avrebbero bisogno». Parallelamente la Fondazione ha già iniziato a lavorare con aziende interessate a costruire modelli e percorsi concreti, ma «molte realtà stanno aspettando di capire proprio come evolverà il quadro regolatorio prima di muoversi». Questo non significa che in Italia manchino esperienze positive: «Grandi aziende quotate e non, come Intesa Sanpaolo, Luxottica, A2a e Sonepar Italia, già usano la partecipazione come leva per attrarre e trattenere capitale umano qualificato, ma la vera sfida è riuscire a estendere questi strumenti alle Pmi e alle realtà non quotate».
Accanto agli interventi tecnici, tuttavia, la partita si gioca anche e soprattutto sul piano culturale. Il tema si intreccia con un’altra sfida cruciale: il passaggio generazionale. La partecipazione può, infatti, diventare un meccanismo per garantire continuità d’impresa quando manca una successione familiare, e allo stesso tempo un «vivaio e una palestra di nuova imprenditorialità». Coinvolgere i lavoratori nella proprietà e nella gestione significa avvicinarsi alle logiche aziendali e al rischio d’impresa, stimolando la nascita di nuove iniziative in un contesto demografico sempre più fragile. «Non è questione di pregiudizi – chiarisce Milan – ma di difficoltà concrete e di resistenze che si supera solo con informazioni, confronto e diffusione di casi positivi». Il sistema finanziario, in questo senso, può avere un ruolo decisivo. «Servono piattaforme dedicate che garantiscano trasparenza e sicurezza nella gestione degli investimenti dei lavoratori, oltre a strumenti finanziari e consulenziali di supporto», spiega Milan.
I dati raccolti dalla Fondazione in collaborazione con Unioncamere e Unioncamere Veneto mostrano, infatti, un fenomeno già in fermento. Su oltre 110 mila società di capitale venete analizzate, 316 hanno già attivato modelli partecipativi. Il 64% appartiene al comparto manifatturiero, per un totale di circa 40 mila addetti. Inoltre, su un campione di 2.200 imprese, un terzo delle Srl e delle Spa si dichiara interessato a valutare questi strumenti e il 5% sarebbe già apertamente propenso ad attuare tali modelli. Intanto, dopo il Veneto, la Fondazione sta lavorando per portare l’esperienza anche in altre regioni, come Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Umbria. «Ci arrivano molte richieste a conferma che il tema è maturo e sentito in tutto il Paese».
Il bilancio resta carico di ottimismo e di attesa: «Abbiamo finalmente un campo di gioco, ma occorre renderlo praticabile. Altrimenti, la partita della partecipazione resterà appannaggio di pochi, mentre la larga base delle aziende rimarrà spettatrice».