Può un’azienda diventare strumento di cambiamento sociale ed ambientale? Addirittura, di un nuovo modo di intendere il “capitalismo”? Può agire non solo per “riparare” i danni inflitti al pianeta con la sua attività economica, ma per lasciare in eredità qualcosa in più? E può farlo per un lungo periodo di tempo, ben oltre i suoi fondatori?
Dai chiodi artigianali per arrampicata venduti a pochi dollari l’uno nei primi anni ’60 fino al conclamato successo mondiale nell’abbigliamento outdoor – che vale oggi più o meno un miliardo di dollari di vendite e 100 milioni di profitti l’anno – è stato lungo questa falsariga che si è sviluppato il percorso di Yvon Chouinard, il fondatore di Patagonia, oggi ottantaseienne. Di certo la crescita e l’arricchimento in sé e per sé non sono mai stati gli obiettivi della sua vita, raccontati da David Gelles del New York Times in una biografia dal titolo accattivante: Dirtbag billionaire, “Miliardario pezzente”, se si vuole utilizzare una delle traduzioni più garbate.
Molto, quasi tutto, di Chouinard e Patagonia è stato detto e scritto. Arrampicatore della generazione pre e post ’68 della Yosemite Valley (dove ha aperto la prima via sul North American Wall a El Capitan), Chouinard è progressivamente passato dall’essere un sostenitore del clean climbing al profeta della qualità assoluta dell’abbigliamento outdoor, pensato come unico modo per contenere i consumi (anche se a prezzi più elevati, dati i costi più alti di fabbricazione). Insieme alla moglie Malinda ha “inventato” il fleece, il moderno pile che tiene caldo e si asciuga in fretta. Storica è stata la pubblicità con la quale nel 2011 proclamò: “Non comprate questa giacca”. Una trovata coerente con lo spirito di Patagonia (nome e marchio scelti dopo l’avventurosa salita sul Fitz Roy compiuta tra l’altro con il fondatore di The North Face) ma che oltre a fruttare vendite superiori al previsto attirò critiche, non del tutto infondate, di ipocrisia.
L’evoluzione dell’impegno ambientale di Chouinard e di Patagonia è stata continua: dopo il clean climbing e l’ossessione della qualità del prodotto outdoor, nel nome di un principio di frugalità e consumo responsabile, si è passati al setaccio della supply chain e dei fornitori, all’ambiente di lavoro (l’asilo aziendale ante litteram, uno stile orientato a preferire la tavola da surf alla giacca e cravatta) fino ad arrivare alla filantropia ambientale (l’1% dei ricavi, e non dei profitti) e a sfociare nell’attivismo ambientale in prima persona (persino con l’opposizione in tribunale ad alcune iniziative dell’amministrazione Trump). Nel 2018 si è raggiunto l’apice, quando alla mission aziendale (“Fai i prodotti migliori, non causare danni inutili e usa il business per ispirare e implementare soluzioni alla crisi ambientale”) si è aggiunto qualcosa di molto più diretto e ambizioso: “Siamo nel business per salvare il nostro pianeta”.
A un certo punto però, dopo la pandemia, la domanda esistenziale di Chouinard è diventata: che cosa fare del “modello Patagonia”? E come preservarlo? La ruvidità del suo carattere era nota, racconta Gelles nei capitoli forse più interessanti del suo libro. Così come il suo sospetto verso assetti che avrebbero potuto tradire le sue intenzioni. Anche questo quasi un’ossessione. Unendo poi al disinteresse per il denaro la sfiducia verso banchieri e finanzieri – greaseballs, ovvero “imbrillantinati”, se si vuole anche qui optare per una traduzione gentile – soluzioni come una vendita, o l’ingresso di un nuovo socio, oppure un’Ipo e addirittura un passaggio di quote ai dipendenti, erano fuori questione. Le offerte, comunque, non erano mai mancate, e tra di esse quelle di Warren Buffett e di Ralph Lauren, e una cessione avrebbe potuto valorizzare Patagonia 6 miliardi di dollari. Poi però, grazie anche alla fantasia finanziaria tanto demonizzata, una via d’uscita accettabile è stata trovata. Chouinard avrebbe irrevocabilmente donato il 2% del capitale, le azioni con diritto di voto, a un Purpose Trust, che avrebbe avuto il compito di garantire la continuità della “mission” di Patagonia. Il restante 98% delle azioni, quelle senza diritto di voto, sarebbe poi stato irrevocabilmente donato alla fondazione Holdfast Collective, che non avrebbe potuto venderle ma che avrebbe ricevuto tutti i profitti non reinvestiti di Patagonia allo scopo di finanziare gruppi – anche politici – e iniziative per il contrasto del cambiamento climatico. Alla fine, anche i due figli di Chouinard, Fletcher e Claire, avrebbero accettato il progetto, dettaglio non da poco quando si tratta di successioni familiari. Dopo un lungo travaglio gli accordi si chiusero, ed era l’agosto di tre anni fa. Dopo la firma, Yvon Chouinard e Malinda uscirono a cena e si fermarono in un locale consumando un hamburger e bevendosi una Guinness. Fino a pochi minuti prima erano stati i proprietari di un’azienda che valeva sei miliardi di dollari.
Due considerazioni, infine. La prima è che offrire miliardi per opere di “charity” non è per nulla un tema sconosciuto ai grandi capitalisti-imprenditori Usa. Altri, più famosi di Chouinard, hanno fatto cose simili: Warren Buffett; la ex moglie di Jeff Bezos, McKenzie Scott; Bill Gates, che ha donato 50 miliardi dollari attraverso la Fondazione Bill&Melinda; George Soros, 32 miliardi alla Open Society Foundations. Ma raramente nella storia del capitalismo una compagnia si è ristrutturata in modo da assicurarsi che tutti i suoi profitti alimentassero cause filantropiche e, nel caso di specie, ambientali. In Europa Ikea e Lego, e curiosamente la svizzera Rolex. Ma ciò che differenzia Chouinard non è solo la donazione e il distacco totale dalla sua proprietà, che comunque non gli evitò l’accusa di aver studiato un sistema per non pagare tasse. Lo è anche l’ultima intuizione, secondo la quale se Patagonia vorrà affrontare il cambiamento tenendo fede al suo “purpose” (“nel business per salvare il nostro pianeta”) dovrà trasformarsi nei prossimi cinquant’anni in una “food company”. Anche utilizzando materiali riciclati ed ecocompatibili, servendosi di energie rinnovabili e mantenendo alti standard lavorativi, il miglior abbigliamento del mondo non guarirà la natura – è l’idea di Chouinard. Ma il modo in cui produciamo il cibo potrà forse farlo.
Bisogna poi intendersi: quello di Patagonia non è stato nel tempo un percorso rose e fiori. Anche la compagnia che vuole niente meno che “salvare il pianeta” sconta contraddizioni e problemi irrisolti. Lo ha fatto nel passato, quando ha scoperto che i suoi subfornitori a Taiwan utilizzavano metodi quasi schiavisti per reclutare mano d’opera; quando ciò è accaduto di nuovo, nel 2019, con il cotone organico importato dalla Cina e prodotto in condizioni similari dagli Uiguri del Xinjiang; quando, ancora prima, utilizzava cotone prodotto con metodi tradizionali e intriso di formaldeide e quando, nel 1991, per la crisi dei Savings&loans licenziò il 20% della sua forza lavoro. Ancora oggi non può evitare che buona parte delle sue merci si spostino per il mondo bruciando carburante per jet, trasporto marittimo e benzina per veicoli. E neppure che il poliestere, seppure riciclato dalle bottiglie, rilasci particelle di microplastica dannose per la salute e l’ambiente.
Un giudizio finale non può che restare sospeso e richiamare le domande iniziali: può il proposito di voler essere di esempio per tutto il sistema delle corporation, può l’obiettivo di rendere “buono” il capitalismo, sopperire al fatto di essere comunque parte del problema?